Marina Spada - La mia città (2011)

Marina Spada - La mia città (2011)

Sono nata a Milano, vivo da sempre nello stesso quartiere di periferia e anch’io, come Alda Merini, lascerei Milano solo per il paradiso. Me ne sono innamorata quando ho visto da ragazzina il quadro futurista di Umberto Boccioni dal titolo sorprendente La città che sale, dipinto a Milano in fondo a via Ripamonti, dove lui abitava. E dove, lì vicino, abito anch’io.

Mio padre guidava il tram e credo sia per questo che ci sono tanti tram nei miei film. Appena posso ci salto sopra: dai finestrini sfila, come una carrellata, il paesaggio urbano che per me è quello del cuore e dell’appartenenza. 

Perché le cose accadano ci vuole un luogo e Milano è il luogo dove “accade” anche il mio cinema. È un personaggio delle mie storie e allo stesso tempo materiale per costruire i film e fissare le biografie di quelli che ci abitano, scordate dal cinema italiano e assenti da tempo dall’immaginario nazionale per una politica locale senza sogni e senza generosità.

Ho sempre voluto fare il cinema, affermare la vita dentro la finzione, contro la distruzione del tempo. Giro film per darmi un senso nel mondo, per capire il presente. Li giro a Milano perché da qui non me ne voglio andare per continuare a raccontare “la città che sale”. E perché nei pomeriggi liberi passo e ripasso negli stessi luoghi della città per non sentirmi estranea, per marcare il territorio come i cani, per rivedere quel paesaggio post industriale struggente come un quadro di Mario Sironi.  

Perché si può fare cinema anche lontani da Roma, per raccontare la diversa bellezza di tutti e di tutto: il cinema migliora il mondo, lo celebra, lo fissa, lo consegna alla storia.

Mi piace fare film ma soprattutto prepararli: giro per giorni a piedi in tutte le stagioni a caccia di un odore, un suono, un racconto, un punto da dove poter fare la ripresa. A volte da sola, a volte con altri che mi portano in luoghi appena sorti, appena mutati o profondamente trasformati. Faccio foto, guardo e cerco di utilizzare ciò che vedo, ciò che colgo, cerco la poesia nella profondità di campo, ascolto dentro ma è la profondità del punto di fuga della circonvallazione che ascolta me. Vado a casa degli amici che hanno tanti libri illustrati, specie a casa di Gabriele Basilico, scansisco, reinquadro, faccio fotocopie, ci disegno sopra. Ritaglio, ordino tutto in scatole dove stanno a decantare.  Poi metto tutto in tre, quattro quaderni grandi e senza righe né quadretti, con le copertine di colore diverso per ogni film, che compongo con piantine dei luoghi in cui segno in rosso il punto dove metterò la macchina da presa, immagini di quadri figurativi ma anche astratti, per spiegare gli orizzonti emotivi dei personaggi, fotografie mie e soprattutto quelle belle, fatte dei grandi fotografi. Annoto il numero dell’obiettivo, le intenzioni recitative, le idee per la scena, alcune parole chiave. Cerco di recuperare quel che qui ho sentito e visto, quello che qui ho provato e conosciuto. Ci metto anche le frasi che mi vengono in mente e che traccio sui biglietti del tram o sui volantini che trovo nei bar e nelle librerie. In qualche modo scrivo a me stessa in cerca di una narrazione che mi riscatti dalla soggettività che mi esilia quando sono lontana dal cinema. Faccio film sempre con lo stesso gruppo, sono tutti molto più giovani di me, condividiamo lo stesso punto di vista e l’orgoglio di fare cinema a Milano che per noi è il set dentro cui raccontare tutte le storie del mondo.

Si sta insieme, si va in giro per la città, mentre sbatto contro i pali e incespico correndo per l’entusiasmo, e si continua a dire: “Ti ricordi quando abbiamo girato qui?”.

I quaderni servono a me e anche a loro perché raccontare a parole quello che voglio fare è sempre difficile, preferisco mostrare.

Non mi interessano molto le complicazioni formali e i virtuosismi della macchina da presa ma la posta in gioco nell’inquadratura rimane, anche per me, la capacità di creare, grazie alla variazione degli elementi tecnici, il rapporto complesso con il reale, con i personaggi e lo spazio. È importante decidere cosa deve fare la macchina da presa: fissa o in movimento? Dove trovare il punto di fuoco? Quale obiettivo? A che altezza? Come ritagliare lo spazio? Cosa lasciare fuori? È così che misuro la tensione fra me e quello che inquadro, ma anche fra gli elementi che riprendo. Lo sguardo si insinua nello stato delle cose e segue la strada che sta fra la struttura dell’immagine e la mia intenzione.

Faccio inquadrature ma poi so con certezza che il cinema più che oggetti o persone rappresenta sentimenti: è come se allo spettatore si rendesse visibile ciò che sfugge a chi l’ha girato, ciò che non c’è nelle immagini. Mi racconto ma speculare al raccontarsi è il sentire e se sento sul serio il luogo dove vivo posso mettermi in discussione, cambiare. 

Mi piace riprendere Milano anche dall’alto cercando sempre nuove finestre, nuovi balconi, nuovi punti di vista da cui guardarla, cercarne i vuoti e intuirne la vita misteriosa e profonda. Parlo con i portinai, gli amministratori, quelli che ci abitano a cui faccio la posta all’entrata. Città pesante, opprimente, dicono ma io non avrei voluto nascere in un posto diverso perché sono quel che sono grazie anche alle sue durezze.

In uno scorcio di palazzi, nel gesto di un uomo che beve un caffè, in una ragazza che corre, in una mano che sventola alla finestra, in una ciminiera sopravvissuta si squarcia un’emozione  improvvisa e la mia storia. Anche l’architettura mi commuove, quella delle case popolari e quella dei palazzetti di quattro piani dove abitano le persone normali che cercano un posto nel mondo. E le piazze, non quelle grandi che stanno sulle cartoline ma quelle piccole, ricavate tra le nuove costruzioni, silenziose nelle ore dei pasti, metafisiche e vuote come le piazze di De Chirico. Provo affetto per Milano senza banale nostalgia del passato ma con tutto il mio presente e quello di nuovi abitanti e di nuove generazioni.

Un giorno comprerò una cartina di Milano e metterò dei bollini rossi in tutti i luoghi dove ho messo la macchina da presa per girare e altri blu per segnare dove l’ha messa Michelangelo Antonioni, nato a Ferrara ma che a Milano ha girato Cronaca di un amore e La notte e che reputo il mio maestro. E magari in altri colori i punti macchina di De Sica, Visconti, Olmi, Cavani.

Milano è donna e madre, la mia che mi tiene la mano per non cadere dagli schettini  in una giornata di sole e vento.

Con questo spirito cerco sempre nuovi posti dove girare nuovi film, con l’occhio vigile in soggettiva sulla storia della città potente che sa cambiare la narrazione del paese. E il passo lungo da donna di pianura.

 

© Marina Spada

© Foto di Toni Thorimbert

Il mio domani, Roma, Contrasto-Kairos, 2011

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